Il Novecento, secolo di autrici

Pubblicato sul numero 140, marzo/aprile 2020 di Leggendaria, Libri Letture Linguaggi.

Il 23 dicembre 2019 il Miur ha diramato una nota avente come oggetto lo studio di autori meridionali e autrici nella scuola secondaria superiore in cui, riconoscendo l’inadeguatezza delle indicazioni ministeriali, si invitano le istituzioni scolastiche di tutti i percorsi di scuola secondaria di secondo grado a creare situazioni di studio, di ricerca e di confronto didattico, sia per i docenti sia per gli studenti, che abbiano come riferimento anche gli Autori meridionali e le Autrici. La nota pone delle questioni fondamentali inerenti la letteratura italiana: una è senza dubbio relativa alle indicazioni ministeriali che, ormai dal 2010, hanno sostituito i vecchi programmi ministeriali, cancellando di fatto l’obbligo dello studio di autori considerati tradizionalmente imprescindibili e lasciando così autonomia alle istituzioni scolastiche e all’iniziativa dei e delle docenti nella predisposizione dei curricoli e dunque nella selezione di autori e autrici oggetto di studio e di ricerca.

Altra questione, seppur non espressamente menzionata, è quella del canone letterario, di ascendenza ottocentesca, che ancora continua a perpetuarsi stancamente nelle scuole penalizzando autori meridionali e autrici, soprattutto queste ultime.

Le ragioni di questa esclusione o, come più prudentemente afferma la nota ministeriale, di questa non sempre adeguata rappresentazione, vanno ricercate nella formazione del canone letterario medesimo, storicamente situata. Il canone letterario italiano, che continua a strutturare i libri di testo, si forma a partire dalla Storia della letteratura italiana di Francesco de Sanctis e risponde all’esigenza di formare una identità culturale e politica del neonato stato – nazione, da un lato mediando a omogeneizzare le amministrazioni scolastiche, dall’altro elaborando i valori e i modelli di riferimento che avrebbero dovuto fondare la tanto agognata identità italiana. De Sanctis, patriota del Risorgimento di ispirazione moderata e liberale, ministro della pubblica istruzione e studioso impegnato nella definizione di una storiografia letteraria, attraverso la sua Storia individua dei modelli prescrittivi che non sono solo letterari. Spariscono così le autrici, ancorché ben rappresentate un secolo prima dalla Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. Del resto, in un’epoca in cui le donne italiane erano escluse dai diritti civili e politici, come avrebbero potuto concorrere, attraverso la scrittura, alla definizione di un codice etico e valoriale per lo stato-nazione e le generazioni successive? A che titolo? Il compito riconosciuto alle donne è quello della cura, della riproduzione sociale e, al massimo, dell’oggetto della rappresentazione, ma il soggetto, l’autore, coincide con il soggetto politicamente egemone: l’uomo, il patriota, il borghese moderato e, paradossalmente, progressista.

L’intensa attività di promozione di associazione, comitati, conferenze e di promozione di documenti, libelli, articoli in cui l’emancipazione femminile viene posta come questione politica autonoma ed inderogabile alimenta una nebulosa di autrici che sviluppano nella forma del romanzo le questioni poste da Mozzoni. Così Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani, 1846-1920), interna agli ambienti letterari milanesi, descrive e analizza le dinamiche dello sfruttamento del lavoro delle donne, salariato e domestico: è il caso di In risaia e di Un matrimonio in provincia; Emilia Ferretti Viola (1844-1929) con il romanzo Una fra tante accende il dibattito sulla prostituzione, attirandosi accese critiche e polemiche; Anna Franchi (1867-1954), con il romanzo Avanti il divorzio!  nel 1902 avvia la discussione sulla riforma del diritto di famiglia che troverà soluzione giuridica solo nel 1975.

Su questa linea della contestazione allo status quo nel quadro variegato della produzione politica e letteraria delle donne ottiene grande risonanza Una donna di Sibilla Aleramo (pseudonimo di Marta Felicina, detta Rina, Faccio 1876-1960). Pubblicato nel 1906, Una donna rappresenta una sorta di testamento al figlio in cui l’autobiografia si interseca con una denuncia sociale che travalica i limiti del personalismo, finendo così per turbare la mistica dominante della maternità con il disvelamento dell’oppressione e della violenza su cui tale mistica si fondava.

L’operazione culturale desanctisiana, che accompagna il lungo processo di costruzione dello stato unitario, nel passaggio tra Otto e Novecento si ritrova a confrontarsi con una realtà molto meno compatta e omogenea della sua rappresentazione, una realtà attraversata da potenti spinte alla contestazione e alla rottura che provengono dai movimenti anarchici e socialisti e dall’emancipazionismo delle prime femministe. Lo scollamento tra le narrazioni ideologiche, fortemente normative, e le reali condizioni di vita delle donne definisce un campo di tensione e di conflitto in cui si distinguono soggettività eccentriche e sovversive come quelle di Leda Rafanelli e Virgilia d’Andrea, entrambe militanti nel movimento anarchico.

Leda Rafanelli (1880/1971) è la protagonista della graphic novel Leda, che solo amore e luce ha per confine, di Colaone-Satta-de Santis, pubblicata nel 2016 da Coconino Press, mentre nel 2017 Corsiero editore ha ripubblicato Oasi, romanzo arabo. Nata in Toscana, dopo un’adolescenza trascorsa ad Alessandria d’Egitto nel 1908 si trasferisce a Milano dove fonda la Società Editrice Milanese. Anarchica e musulmana, tipografa e scrittrice, Leda ha attraversato un secolo da donna orgogliosamente irregolare, anche negli anni più difficili, quelli del fascismo.

Pericolosissima anarchica sovversiva, così nel 1919 la prefettura di Bologna definisce Virgilia d’Andrea, nata a Sulmona nel 1888 e morta a New York nel 1933, sfinita nel corpo dalla miseria e dalla malattia dopo un lungo periodo di esilio tra Berlino, Parigi e New York. Maestra elementare, l’insegnamento nelle scuole dell’entroterra abruzzese la mette in diretto contatto con l’arretratezza, la deprivazione economica e culturale, le ingiustizie sociali che umiliano le popolazioni della Marsica, devastate anche da un terremoto nel 1915. Nel 1919 abbandona l’insegnamento per dedicarsi completamente all’attività politica e sindacale alla guida del movimento anarchico, rimanendo ferma su posizioni antifasciste e antimilitariste che le costarono oltre all’esilio anche un periodo di prigionia. Ella si serve della letteratura come d’un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico o ad una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che dalla prigione lo sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta. Così scrive Errico Malatesta nella prefazione alla raccolta poetica Tormento, pubblicata nel 1922. Nel 2019 Rina edizioni ha ripubblicato con il titolo Non sono vinta, una raccolta di scritti tra anarchia e antifascismo di Virgilia d’Andrea.

Su posizioni più moderate si attesta Anna Maria Mozzoni (1837-1920). Traduttrice de La servitù delle donne di J. Stuart Mill per la collana Cultura dell’anima della casa editrice Carabba, Mozzoni è impegnata nel movimento emancipazionista e per la conquista dell’autonomia giuridica e del voto delle donne. La sua scrittura, da pubblicista, è funzionale alle battaglie, per quanto moderate e sempre condotte nel solco istituzionale, che la impegnano tutta la vita: da La donna e i suoi rapporti sociali a La legislazione a difesa delle donne lavoratrici. Dagli amici mi guardi Iddio! scritti per riviste come La Donna o l’Avanti!

Nella crisi delle certezze e dei valori di inizio secolo, che getta un’ombra inquietante sullo sviluppo tecnologico, economico e sociale del giovane stato unitario, l’immagine monolitica e rassicurante del femminile materno proiettata dalle narrazioni dominanti degli autori si frantuma in una pluralità di scrittrici disturbanti, cui si sottraggono alcune, destinate a miglior fortuna. La trasgressività di Sibilla Aleramo è un’eccezione, che però tende a ritornare a più miti consigli quando Mussolini la chiama a Palazzo Chigi nel 1929. “Cosa la spinge a presentarsi a Mussolini? La fame” scrive Roberta Tatafiore in un articolo del 2008 intitolato Sibilla Aleramo, Mussolini e Togliatti. Abbandonata dalla critica e dal pubblico, Aleramo si presenta alla chiamata del Duce pretendendo di essere nominata membro dell’Accademia D’Italia. Lui la ridimensiona con il diniego di inserire una femmina nel più alto consesso culturale del paese, ma da quel momento Sibilla sopravvive come tanti artisti foraggiati dal regime, mantenendosi lontana da troppi problemi, anche quando le condizioni politiche cambiano. Nel 1946 è lei a scrivere a Togliatti per chiedere l’iscrizione al PCI. Così, concludeva Tatafiore nel 2008 “Colei che fu ˂˂un poeta˃˃ accolto da Mussolini, percorre il viale del tramonto incensata, vezzeggiata e protetta nell’ambiente e nell’apparato culturale comunisti. Dopo quasi quarant’anni, il suo romanzo d’esordio è ancora il suo usbergo e la sua gabbia: viene ripubblicato, recensito e venduto, ma gli altri libri, anche i nuovi, non li legge più nessuno.”

Dagli inizi del Novecento, dopo il canone letterario di De Sanctis, la produzione letteraria delle donne sembra guadagnare spazio e consenso quando non risulta troppo disturbante e non si discosta dalle linee culturali e politiche egemoni. Così Grazia Deledda (1871-1930), allieva di Giovanni Verga, nel 1926 è la prima italiana cui viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. La sua candidatura viene caldeggiata da Mussolini, che contestualmente pone il veto a quella di Matilde Serao, già candidata per sei volte al premio Nobel senza mai riuscire ad ottenerlo, osteggiata per le sue posizioni antimilitariste. Ciò che ha reso popolare la narrativa di Deledda, spingendola oltre i patrii confini fino a farle valere un Nobel per la letteratura, è la trasfigurazione della Sardegna in un paesaggio mitico-simbolico, regolato dagli istituti sacri della famiglia e della patria, su cui incombe il senso dell’errore, della deviazione dalle norme, del peccato. La fatalità della passione sconvolge i personaggi, piegati come Canne al vento. La minaccia è sempre esterna alla incontaminata civiltà pastorale, il più delle volte viene dalla città e dal progresso dell’industria e prende le forme di una crisi morale che corrompe la purezza più delle peccatrici che dei peccatori. La narrativa di Deledda è in linea con le istanze reazionarie del verismo nostrano, purtuttavia la sua scrittura, a confronto con Verga e Capuana, è stata e continua ad essere giudicata istintiva, grossolana, priva di solide fondamenta culturali e di rigore scientifico, come accade anche per Serao.

Matilde Serao (1856-1927), scrittrice e giornalista, è stata la prima donna a co-fondare un giornale, esperienza inaugurata con Il Corriere di Roma e proseguita con Il Mattino e Il Giorno. Della fervida attività giornalistica risente Il ventre di Napoli, romanzo-inchiesta sulle condizioni deplorevoli della popolazione napoletana durante un’epidemia di colera. Le cronache che descrivono la vita degradata dei quartieri bassi si saldano alla questione meridionale, in aperta polemica con Depretis e le sue proposte di “sventramento” della città. Già dal titolo Serao si richiama al modello e dunque al metodo naturalista usato da Zola ne Il ventre di Parigi. Purtuttavia Croce, nel profilo a lei dedicato nella Letteratura della nuova Italia, non esita a giudicare la sua scrittura priva di elementi di riflessione e di cultura: “Ella è tutta osservazione e sentimento; o, meglio, osservazione mossa da sentimento.”

Altro snodo cruciale nella storiografia letteraria italiana è la Letteratura della nuova Italia pubblicata da Benedetto Croce nel 1903. Pur guardando al canone desanctisiano senza metterlo in discussione, Croce rinnova il lavoro storiografico, ma anche critico-interpretativo, inserendo profili di scrittrici e individuando una “letteratura femminile nazionale” che conferma il modello di donna già codificato nella seconda metà del secolo XIX, associando al femminile qualità come mollezza, impulsività e sentimentalismo. Sostanzialmente per Croce la scrittura delle donne è scrittura sentimentale perché le donne sarebbero per natura votate alla cura, alle emozioni e ai sentimenti. Ne deriva, dunque, un giudizio sommario di incompiutezza e mancanza di rigore stilistico-espressivo, con qualche rara eccezione di scrittrice dotata, a giudizio del critico, di “pensiero virile”.

La seconda generazione di autrici comincia a svilupparsi nel ventennio a cavallo delle due guerre con la formazione e le prime prove di molte grandi scrittrici, ad oggi ancora assenti nel canone letterario, che si affermeranno dopo la seconda guerra mondiale: nel ‘35 una giovanissima Elsa Morante (1912-1985) esordisce con Qualcuno bussa alla porta, Fausta Cialente (1898-1994) nel ’36 si fa conoscere con Cortile a Cleopatra, Alba de Céspedes (1911-1997) nel ’38 ottiene un inaspettato successo editoriale con Nessuno torna indietro, nonostante il boicottaggio del regime. A quel ventennio risalgono le prime pubblicazioni di eccellenti e fervide studiose come Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti 1895-1985)e Maria Bellonci (1902-1986) che nel ’39 dà alle stampe Lucrezia Borgia, mentre risale al ’41 la prima raccolta di poesie, intitolata Fiore, diLalla Romano (1906-2001).

La maturità di questa generazione si conferma superando lo spartiacque storico della Resistenza che segna per moltissime donne, non solo scrittrici, la fuoriuscita dall’alveo della domesticità e l’impegno politico militante, come racconta quel caposaldo della letteratura neorealista che è l’Agnese va a morire di Renata Viganò (1900-1976). È Alba de Céspedes che, dal programma radiofonico Italia combatte, con lo pseudonimo di Clorinda si rivolge in particolare alle donne esortandole alla Resistenza contro i nazifascisti e istruendole al sabotaggio. Joyce Salvadori Lussu (1912-1998) scrive in prima linea pagine fondamentali della storia italiana: partigiana combattente, anche mentre era incinta, fu promossa capitano e insignita di medaglia d’argento al valore militare, una medaglia di cui pretese l’assegnazione con pubblica cerimonia, con tanto di plotone d’onore, presentat’ arm, banda militare, presenza del generale comandante e delle autorità civili, di fronte ai quali sfilò vestita di rosso, trionfante anche su quelle stesse autorità militari che avrebbero voluto recapitarle la medaglia a casa in forma privata, senza  cerimonia alcuna. L’esperienza della guerra, anche quando non è centrale, affiora costantemente fornendo il substrato della narrazione come nell’Artemisia di Anna Banti in cui la distruzione del manoscritto originario durante i bombardamenti e la sua riscrittura rappresentano l’antefatto del romanzo dedicato alla pittrice barocca.

A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta si definisce un orizzonte letterario caratterizzato da una scrittura dell’impegno in cui le autrici si inseriscono a pieno titolo dopo aver finalmente conquistato quel diritto di voto che, per dirla con le parole di Joyce Lussu, “non si poteva più negare a nessuno”. Ma in questa esperienza collettiva di rielaborazione della guerra, costruzione di una memoria storica, definizione di un complesso valoriale per le generazioni a venire, la produzione delle scrittrici segna un rapporto di alterità, quando non di critica in aperta polemica con l’egemonia culturale maschile, che continua a proporsi e imporsi ben oltre l’immediato dopoguerra. Così, ancora negli anni settanta Joyce Lussu, in quei lavori a metà tra scrittura autobiografica e saggio che sono Padre padrone padreterno e L’uomo che voleva nascere donna denuncia il persistere di strutture gerarchiche e maschiliste che continuano a escludere le donne – e i giovani – dalle direzioni di partiti e sindacati e, più in generale, dai luoghi decisionali e di potere, relegandole a ruoli ancillari e risospingendole verso i tradizionali spazi domestici. Analogamente, Miriam Mafai (1929-2012) nel 1987 racconta in Pane nero di come la nuova Italia uscita dalla Resistenza sia ancora profondamente tradizionalista e bacchettona. Quanto alle partigiane, la loro presenza non era gradita alle celebrazioni della Liberazione. La disapprovazione per le partigiane che non sopportavano di restare a guardare ai margini e sfilavano nei cortei celebrativi è ben chiosata dalla frase “La gente diceva che erano delle puttane”.

Quando nel 1974 Elsa Morante pubblica La storia, sottotitolo Uno scandalo che dura da diecimila anni, la polemica non tarda ad esplodere e gli attacchi più duri provengono proprio dal ceto intellettuale di sinistra, i cui giudizi, da Fortini a Calvino, da Asor Rosa a Luperini, spaziano dal patetico all’uterino. Non sarà un caso che Calvino, nel ricco repertorio letterario sciorinato per la stesura delle sei proposte per il nuovo millennio che avrebbe dovuto tenere nel 1985 ad Harvard, non abbia pensato di includere nemmeno una scrittrice. A fronte della ricchissima produzione letteraria a firma di donne che esplode a cavallo tra Otto e Novecento, nessuna scrittrice, non solo Morante, sarebbe degna di fornire un exemplum per il nuovo millennio.

La concezione morantiana della Storia come successione ininterrotta di prevaricazioni e violenze ai danni dei più umili e indifesi ben esprime il senso dell’alterità di cui sopra. Il rifiuto di celebrare le magnifiche sorti e progressive della Storia, unitamente al rigetto del romanzo ottocentesco, inserisce Morante nel quadro della sperimentazione e della modifica di canoni, codici e contenuti a cui lavora la seconda generazione di scrittrici già a partire dalla formazione, prima della seconda guerra mondiale. Anche se queste non costituirono mai un gruppo omogeneo e coeso è possibile rintracciare delle costanti nella loro produzione: la ricerca di espressione della propria soggettività, l’assunzione di una prospettiva autonoma, a partire dalla propria esperienza storicamente situata, il ribaltamento del punto di vista dominante, la sperimentazione linguistico-espressiva, la contaminazione dei generi letterari.

È il caso di Bellonci, solo per fare un esempio. Già il suo romanzo d’esordio Lucrezia Borgia non è una mera ricostruzione storica della vita e dell’epoca della protagonista perché l’autrice, attraverso un’accurata e documentata narrazione, procede a sottrarre Lucrezia alla stereotipia, sedimentata nei secoli, di donna dissoluta, superba e assetata di potere. Questo lavoro di riscrittura della storia si conferma con un romanzo della maturità, Rinascimento privato, vincitore nel 1986 di quel premio Strega che lei stessa, insieme al marito, aveva concepito dal “privato” del suo salotto letterario. Con un lavoro certosino di cesellamento della lingua, il Rinascimento viene riattraversato nell’autobiografia immaginaria di Isabella d’Este dalla dimensione privata che si fa politica.

Le operazioni letterarie di Bellonci, come quelle di Banti, si mantengono sempre su un livello colto, raffinato, elegante, ma l’espressione della soggettività, l’assunzione di una prospettiva diversa da quella dominante, la sperimentazione, la contaminazione dei generi passano anche per altre vie, decisamente meno auliche. Negli anni Settanta, in seno ai movimenti di contestazione esplode una seconda ondata di femminismo, che se per un verso si riallaccia all’emancipazionismo di primo Novecento, per un altro conosce evoluzioni più radicali. È appunto il femminismo radicale a contestare duramente l’assetto sociale in toto, dalle radici e a propugnare lo scalzamento di un mondo progettato e codificato da altri, dove alle donne spettano i ranghi della subalternità. L’esordio di Carla Lonzi (1931-1982) Sputiamo su Hegel è un grido di rottura con la tradizione occidentale fondata su una dialettica uomo-donna che modella, e precede, quella servo-padrone. Lonzi è stata una critica d’arte e non una letterata, ciononostante il suo contributo è imprescindibile quando si affronta la questione del canone e della critica. Se il punto di partenza in Sputiamo su Hegel è che l’elaborazione culturale è strumento principe di costruzione e naturalizzazione di identità e va pertanto continuamente smontata e ricostruita, già nel ‘69 in Autoritratto veniva espressa una sorta di personale senso di estraneità di fronte al potere discriminante che la critica d’arte, ma vale anche per quella letteraria, esercitava sugli artisti.

Siamo così ritornate al punto di partenza, cioè l’invito del Miur a studiare anche le autrici, agli autori, non degnamente rappresentate/i, o forse sarebbe meglio dire rimosse/i, dalla storiografia e dalla critica letteraria ufficiali. Cosa significa per una docente costruire percorsi di ricerca e di approfondimento sulla vita e le opere di autrici misconosciute, sottostimate, dimenticate? Ri-costruire una genealogia? Ri-scrivere un canone? O forse, piuttosto, potrebbe significare l’occasione giusta per abbandonare il ruolo di vestale acritica di una tradizione progettata e codificata da altri, tanto per parafrasare Carla Lonzi, e avere il coraggio di spingersi oltre. Se una genealogia è fondamentale per capire chi siamo, da dove veniamo e dove vorremmo andare, per costruire quella che nel discorso scolastico viene definita “competenza di cittadinanza”, limitarsi ad opporre un canone ad un altro non sembra avere molto senso.

Il problema, che dal Ministero dell’istruzione sembra essere posto solo ora, dopo non meglio specificate “segnalazioni” e con una timida nota, in realtà viene dibattuto da decenni in seno agli studi di genere in ambito accademico e dalla critica femminista. Come suggerisce Anna Maria Crispino, curatrice del volume Oltrecanone, generi, genealogie, tradizioni, Iacobelli ed. 2013 “si può invece andare oltre il canone?”  considerato che la complessità del presente e la moltiplicazione delle vie d’accesso ai saperi pongono domande e sfide interessanti non solo sulla tradizione, ma anche sui soggetti e sugli oggetti del sapere, sulle relazioni con la cultura dominante, sui rapporti di forza che si determinano nell’atto stesso della produzione culturale.

Mi pare degno di nota il fatto che la scuola, dove il personale docente è quasi tutto femminilizzato, fino ad ora non sia stata attraversata dal fermento di tali istanze e anzi preferisca giocarsi la parte della Vandea reazionaria che guarda con snobistico sospetto quelle rare eccezioni che, tra lo scetticismo generale, in anticipo sui tempi ministeriali hanno approfittato del venir meno della prescrittività di programmi nazionali per sperimentare percorsi di ricerca sulle produzioni artistica, letteraria, filosofica, scientifica delle donne. Andrebbe indagato e analizzato il perché un corpo docente che è per la maggior parte composto da donne tende ad arroccarsi su posizioni conservatrici manifestando diffidenza verso l’attività intellettuale delle donne medesime. Dismettiamo il ruolo, forse più comodo, di passive vestali di una tradizione fatta da e per altri per assumere quello più consono di ricercatrici e di intellettuali. Lo dico da docente di scuola secondaria superiore.

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