Con Trotula e le altre nel cuore

Nell’estate del 2017 la Public design commission di New York votava per la rimozione della statua di James Marion Sims da Central Park, proprio di fronte alla New York Modern Academy. La statua, che celebra in abiti chirurgici l’universalmente riconosciuto padre della ginecologia, nel gennaio 2018 viene pertanto traslata nel cimitero dove riposano le spoglie dell’esimio dottore. Le contestazioni che hanno portato alla rimozione del monumento non si sono focalizzate tanto sulle conquiste scientifiche, quanto sui modi in cui queste sono state ottenute. Sims è ritenuto il fondatore del primo ospedale per donne a New York, l’inventore di strumenti come lo speculum vaginale e lo studioso di tecniche chirurgiche finalizzate alla salute riproduttiva delle donne. Fino a poco tempo fa, almeno fino al 2007, anno della pubblicazione di Medical Apartheid di Harriet Washington non ancora tradotto in Italia, è passato sotto traccia il fatto che le conquiste mediche di Sims sono state raggiunte ad un caro prezzo, pagato dalle schiave nere sui cui corpi Sims ha svolto, senza consenso e senza anestesia, gli esperimenti che gli sono valsi il titolo di padre della moderna ginecologia, mentre i nomi delle donne che con i loro corpi hanno reso possibili i progressi medici rimangono nell’oblio.

Dagli scritti di Sims sono sopravvissuti solo i nomi di Anarcha, Lucy e Betsey; in particolare, di Anarcha sappiamo che venne sottoposta ad almeno trenta operazioni, tutte senza consenso della medesima e senza anestesia, giustificando una tale brutalità con l’idea, apertamente razzista, che le persone di colore, ed in particolare le donne, non soffrissero dolore. Le vicende di Anarcha, Lucy, Betsey e delle altre schiave afroamericane usate come cavie nel primo ospedale per donne di New York non appartiene a quel Medioevo che a partire dall’Umanesimo ci è stato raccontato come un’età di barbarie, ma alla contemporaneità. Era il 1845 quando un latifondista si presentò da Sims con la richiesta di guarire la diciassettenne Anarcha da una fistola vescico-vaginale conseguente al parto, perché tale patologia rendeva la schiava inabile al lavoro nelle piantagioni di cotone. Ciò che interessava non era la salute della schiava, ma la sua produttività. Fino ad allora Sims non si era occupato di ginecologia, i suoi studi sul trattamento del Trismus nascentium, una malattia riconducibile al tetano, non avevano incontrato il favore della comunità scientifica. Fu dunque il corpo di Anarcha, la sua temporanea improduttività, ad offrire al medico un’occasione d’oro su un piatto d’argento.

Ancora nel vicinissimo 1951 la storia si ripete. Henrietta Lacks, afroamericana discendente di schiavi, operaia nei campi di tabacco, malata di un tumore alla cervice uterina viene sottoposta ad una biopsia. Morirà di lì a poco, ma dalle sue straordinarie cellule, prelevate senza informativa e senza consenso e oggi note come cellule HeLa, sono stati ricavati 11.000 brevetti e si è sviluppata tanto la ricerca che ha portato al vaccino antipolio, quanto una industria biomedica e farmaceutica che hanno continuato a fatturare miliardi di dollari mentre i discendenti di Henrietta stentavano a pagare l’assicurazione indispensabile per accedere alle cure mediche in America. Mentre scriviamo è in corso il risarcimento dei danni morali che la scienza ha causato alla famiglia Lacks: il 29 ottobre 2020 l’Howard Huges Medical Istitute, la più grande organizzazione biomedica privata degli USA,  ha provveduto ad una donazione in favore della Henrietta Lacks Foundations, una fondazione che con borse di studio e varie forme di sussidi economici sostiene le famiglie delle persone i cui corpi e dati biologici sono stati utilizzati nella ricerca scientifica senza alcun consenso.  

La soglia della modernità in ginecologia è dunque marcata da pratiche brutali, volte a rendere economicamente produttivi i corpi di donne, pratiche che non si esisterebbe a definire barbariche se il soggetto non fosse, come invece è stato, un uomo bianco, accreditato dalla scienza  e ritenuto meritevole di una statua e come oggetto donne nere, schiave, povere, immeritevoli di qualsiasi menzione, rimosse dalla Storia e da un progresso che si autorappresenta sempre come spinta in avanti e conquista di civiltà. Appaiono evidenti almeno due fattori: il primo, che la reificazione del corpo delle donne ha seguito le linee dell’oppressione di genere, razza e classe. Corpi di schiave nere sacrificabili per il profitto e il prestigio dell’Uomo bianco e per la salute della Donna bianca di ceto elevato. Il secondo elemento su cui vale la pena soffermarsi è che il progresso tecno-scientifico non necessariamente coincide con una conquista di civiltà e di benessere per tutte e tutti, ma anzi spesso convalida e rafforza forme di oppressione già esistenti e procede all’espulsione di alcune categorie dall’accesso al sapere, alla salute, alla ricchezza.

Non mancano precedenti in questa direzione, anzi, la Storia abbonda di esempi. Per rimanere in tema, un altro passaggio cruciale, che nella storiografia ufficiale segna la fuoriuscita dal Medioevo, è la nascita dell’Università, deputata a diventare centro accreditato e ufficiale di un sapere universalmente riconosciuto, il Sapere con solide basi scientifiche, l’unico degno di riconoscimento e di fiducia. L’istituzione dell’Università si fonda sulla esclusione delle donne dalla medesima e dunque sulla loro espulsione, operata scientemente, dall’accesso ai saperi e alla ricerca. Anche questo passaggio non è frutto dei “secoli bui” di un Medioevo superstizioso e oscurantista. In epoca medievale, contrariamente a quanto si ritiene, le donne si occupavano di medicina. Ne è riprova il fatto che mentre oggi il termine medica non è contemplato nel vocabolario della lingua italiana e suona cacofonico alle nostre orecchie, nelle lingue volgari di tutta Europa il femminile di medico è attestato e permane nella lingua italiana fino al Dizionario Di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini edito nel 1861 per scomparire proprio in tempi recenti.

La lingua rappresenta sempre uno strumento rivelatore delle realtà che nomina e che contribuisce a creare: se nel volgare esiste il termine medica, vuole dire che nel Medioevo le mediche esistono. Come ha scritto Tiziana Plebani in Le scritture delle donne in Europa, l’alba delle scritture letterarie è segnata anche dai trattati di medicina e cosmetica scritti o ispirati da Trotulae dalle Mulieres Salernitanae tra l’XI e il XII secolo, prodotti dentro quello spazio non ancora universitario che era la Scuola Medica Salernitana. La tradizione di saperi connessi alle pratiche di cura non è esclusivo appannaggio delle Mulieres Salernitanae. Ildegarda di Bingen, tanto per citare un nome conosciuto ai più, scrisse anche di Causae et curae. Qualche secolo dopo, nel XIV secolo, un’altra testimonianza proviene dal mondo fiammingo ed è la firma Abestetrix Heifmoeder apposta da un’ostetrica su una sorta di enciclopedia medica e bestiario del poeta Jacob van Maerlant, a garanzia di restituzione di un volume preso a prestito.

Anche le lingue classiche possiedono il femminile per designare la professione medica quando a praticarla è una donna. Medica è attestato in Marziale, Apuleio e nelle epigrafi tombali. La lingua greca declinava al femminile ἰατρός, medico: ancora una volta, l’esistenza di termine specifico, ἰάτρια, medica, testimonia quanto nel mondo antico fosse diffusa la pratica di cura presso le donne. La tradizione ci ha conservato il nome e l’opera di una medica bizantina del VI secolo dC, Metrodora, autrice di un misconosciuto trattato sulle malattie delle donne, il Περὶ τῶν γυναικείων παθῶν τῆς μἠτρας, in cui sono riportati medicamenti a base di erbe per curare patologie gastriche e ginecologiche, traumi, febbri insieme a ricette di cosmetica e profumeria.

Questi elementi, seppur non completi ed esaustivi, sono comunque sufficienti ad affermare che nel mondo classico e fino a tutto il Medioevo le mediche hanno esercitato professioni di cura a partire dall’esperienza specifica dei loro corpi. Non sono state solo levatrici, ma anche guaritrici che avevano dimestichezza con la cura in un’accezione più ampia della sola ginecologia e dunque con le patologie più disparate. Come analizza Silvia Federici in quell’opera monumentale che è Calibano e la strega, il quadro cambia nel passaggio all’età moderna, in concomitanza con l’espulsione dall’università delle donne e di saperi, tradizioni, esperienze accumulatesi nei secoli e prontamente rubricate alle voce “superstizione”: la levatrice fu emarginata non solo perché di lei non ci si poteva fidare, ma anche perché attraverso la sua esclusione dalla professione passava la distruzione del controllo delle donne sulla riproduzione […] Da questo punto di vista non c’è alcun dubbio che la caccia alle streghe abbia distrutto i metodi che le donne possedevano per controllare la procreazione, denunciandoli come strumenti diabolici e istituzionalizzando il controllo dello stato sul corpo femminile, condizione necessaria del suo assoggettamento alla forza-lavoro. Espropriare e cancellare saperi significa privare di potere il soggetto che li detiene, renderlo oggetto di studio e osservazione, di controllo, in una parola assoggettarlo ed è esattamente ciò che è successo alle donne nella transizione dal Medioevo all’età moderna. Da Metrodora, alle Mulieres Salernitanae ad Anarcha Lucy e Betsy fino ad Henrietta Lacks il processo operato dalla scienza medica è stato quello di una progressiva delegittimazione delle mediche fino alla riduzione delle donne da soggetti a oggetti di studio, di disciplinamento e di profitto, corpi funzionali alla riproduzione sociale. Tale processo è durato secoli ed ha conosciuto forme di opposizione e di resistenza. La stregoneria è stata una di queste, il femminismo un’altra.

Nella seconda metà dell’Ottocento, proprio mentre Sims sperimentava in America quelle atrocità che gli sono valse il titolo di padre della ginecologia, riuscivano a conquistare una laurea in medicina e a superare gli innumerevoli ostacoli per l’esercizio della professione prima Elisabeth Blackwell e pochi anni dopo, esattamente nel 1870 alla Sorbona, Elisabeth Garrett Anderson. In particolare per quest’ultima fu determinante l’attivismo nel movimento femminista delle suffragette e le battaglie sia per il diritto di voto che per l’accesso all’istruzione superiore, all’università e alle professioni mediche.

Poiché la storiografia medica ufficiale ha eretto statue a Sims, ma abbandonato nel dimenticatoio Elisabeth Blackwell ed Elisabeth Garrett Anderson è stato ancora una volta il femminismo, durante la potente seconda ondata degli anni Settanta, ad incaricarsi di ricostruire una genealogia che è andata molto più indietro delle pioniere dell’Ottocento, spingendosi fino all’antichità. Parallelamente alla costruzione di una genealogia, il femminismo bianco radicale e quello nero afroamericano hanno iniziato una critica ai fondamenti epistemologici della disciplina, che dura ancora oggi e che ha contribuito alla rimozione della statua di Sims a Central park e al riconoscimento dei danni morali alla discendenza di Henrietta Lacks.

Come femminista e come docente di italiano e greco antico in una classe composta per la quasi totalità di ragazze, molte delle quali hanno optato per un’offerta formativa con curvatura biomedica, ritengo mio preciso dovere dare un contributo agli immani sforzi compiuti fino ad ora per costruire una genealogia e per demistificare la retorica di una scienza medica apparentemente neutra e neutrale. Poiché molte e molti studenti sono intenzionati a svolgere professioni biomediche, la mia speranza è che saranno loro a raccogliere questa eredità e a declinarla opportunamente nella loro deontologia. Io mi assumo la responsabilità di indicare dei percorsi e di spianare la strada alla consapevolezza che il giuramento di Ippocrate non basta più. Che almeno lo si faccia con Trotula e le altre nel cuore.

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